Racconto pubblicato nell'antologia 'La vita che vorrei' edita dalla Giulio Perrone Editore
Istanbul, un sorriso e una ruga
Fui messa al mondo nel 1945 in Francia da una giovane zingara, sola e disperata.
Dopo pochi giorni mia madre mi vendette ad una famiglia di contadini poverissimi, che mi presero pensando che una femmina avrebbe potuto, un domani, far da serva ai loro figli maschi.
Storie assurde da fine guerra, periferie di estrema povertà.
Dopo il mio arrivo, ai miei nuovi genitori vennero altri figli, tutte femmine.
Un giorno, ero già grande, quello che avrebbe potuto essere mio padre decise di vendermi a Madame.
In fondo - spiegò a sua moglie - sarà sempre meglio che morire di fame insieme a tutti noi.
La donna, che avrebbe potuto essere mia madre, accettò quell’assurdo destino con la stessa rassegnazione con cui continuava a mettere al mondo i suoi figli.
Mi vendettero a Madame per pochi franchi, appena sufficienti per acquistare un piccolo terreno da coltivare.
Madame mi portò a Parigi, nella sua grande casa.
Ero spaventata ma anche curiosa. Avevo solo sedici anni.
Mi fece lavare da alcune donne che mi strigliarono neanche fossi un vitello appena nato.
Fui vestita di biancheria fine e abiti di seta succinti.
I miei capelli biondi lasciati sciolti sulle spalle.
Fui condotta da Madame.
Avevo solo sedici anni e nonostante quel corpo da donna fatta, dentro non ero che una bambina, ingenua, inconsapevole, e soprattutto tradita.
Madame quella notte mi tenne con sé, nel suo letto.
Sei molto bella, così pulita sembri un’altra - disse - ho scelto bene la mia merce.
Rise Madame, sorprendendosi della mia spontanea reticenza alle sue ambigue attenzioni.
Ti insegnerò tutto – disse -sarai la più apprezzata. Se vorrai, diventeremo ricche.
Rise ancora quando allontanai la sua mano dal mio corpo. Rise sonoramente mentre riponeva con fermezza quella mano, a vantare la proprietà della merce appena acquistata.
Quella notte Madame forgiò la sua mercanzia con un marchio che mi avrebbe scottato sulla pelle per molto tempo. Il marchio del possesso mischiato alla lussuria.
Mi fu assegnata una stanza, bella, elegante, con un letto a baldacchino nel centro.
La casa di Madame, capii più tardi, era di alto livello. Uomini facoltosi e di potere la frequentavamo contando sulla qualità della merce e sulla riservatezza della padrona.
Io fui destinata agli ospiti più importanti.
Avevo solo sedici anni, ma dalla mia nascita ero già stata venduta più volte e quello sembrava essere il mio destino. Non riuscivo nemmeno ad immaginare un’esistenza diversa. Non sapevo quale vita avrebbe mai potuto essere la mia.
Pierre era un pittore, di quelli stravaganti e stranamente ricchi. Non era certo la sua arte a renderlo ricco, bensì l’appartenenza ad una nota e facoltosa famiglia borghese.
Quando venne, Madame non esitò a bussare alla mia porta.
Avevo diciassette anni quando Pierre mi chiese di scappare con lui.
Sei la mia ispirazione migliore - disse - i miei nudi avranno il tuo corpo.
Per evitare le ire di Madame lasciò una cospicua cifra sul letto.
Pagandomi salata mi portò via con sé.
Andammo ad Istanbul.
I suoi quadri ebbero la forma del mio corpo. E del mio viso. Ma un’anima irriconoscibile apparteneva a quelle sembianze.
Il tuo corpo è acerbo - sosteneva sempre Pierre - mentre il tuo sguardo atavico. È questa ambiguità che più mi ispira. Sarai mia per sempre.
In fondo mi aveva comprata.
Dopo qualche anno, una sera, decise di condurmi in una fumeria d’oppio.
Vedrai sarà bello - mi rassicurò - verranno alcuni amici, rimarremo qualche giorno lì. Sarà come restare nel limbo.
Lo seguii senza batter ciglio. Non ero più la puttana di Madame ma la donna di Pierre, quindi obbedii.
Nella fumeria, ricavata illegalmente nel locale sotterraneo di un magazzino di tessuti, mi accomodai su un tappeto, all’angolo di una stanza senza finestre, riparata da alcuni paraventi dal disegno orientale. L’aria era quasi soffocante.
Una coltre di fumo riempiva l’ambiente.
Pierre mi fece fumare per ore, fino a quando persi coscienza di me.
Ricordo, come fosse un sogno sbiadito appartenente a qualcun altro, l’arrivo dei suoi amici.
Per una volta non fui venduta ma soltanto data in prestito.
In quelle ore, insieme alla coscienza, persi anche quel briciolo di dignità che credevo aver riconquistato negli ultimi anni vissuti insieme a Pierre.
La terza notte arrivò Siddik.
Era un pittore turco, amico di Pierre. Colui che lo aveva convinto ad andare in quella assurda e meravigliosa città.
Siddik non fece come gli altri.
Mi osservò a lungo, poi si sedette accanto a me prendendomi la mano. Mi parlò, a voce bassa, in un francese tentennante e ridicolo.
Non ti preoccupare, cheri - mi disse - nessuno ti toccherà, adesso ci sono io.
Pierre era scomparso, seppi in seguito che si era appartato con un’altra donna, riparato da altri paraventi dal disegno orientale. Era quello il modo con il quale lui lasciava le donne di cui si era stancato.
Siddik mi portò via con sé.
Mi condusse nella sua casa, un piccolo monolocale nel centro di Istanbul. Mi fece un bagno e mi cedette il suo letto.
Vegliò su di me per tutto il tempo che dormii.
Al mio risveglio, molte ore dopo, lo trovai con gli occhi tondi, intento a scrutarmi.
Non ti preoccupare, cheri - mi sussurrò - è tutto finito. Tempo fa ti ho sognata e la mattina al risveglio, ti ho dipinta. Ma non credevo che tu esistessi veramente.
Alzandomi scorsi dalla finestra oltre la maestosità del Bosforo,
la Moschea Blu, illuminata da un malinconico tramonto.
Avevo assistito a molti tramonti ad Istanbul, ma quello fu come se fosse il primo.
Siddik mi portò davanti ad una tela.
Su quella tela c’era il mio corpo coperto da un vestito dai colori vivaci, il mio viso sorridente sotto un cappello di paglia a larga tesa, sulla fronte una ruga profonda, tra le dita una margherita. Dietro di me lo sfondo incerto di chi deve ancora decidere le forme ed i colori di un destino.
Adesso so come dipingere lo sfondo – sussurrò con voce dolce - lo leggo nei tuoi occhi.
Quello era il mio corpo e quello il mio viso, ma la cosa che più mi stupì fu riconoscere la mia anima, svelata a me stessa per la prima volta, da quel sorriso e quella ruga.
Immaginai il fondale di quel ritratto, lo vidi nel tramonto che avevo scorto poco prima dalla finestra.
Avevo solo vent’anni, e non avrei più permesso a nessuno di vendere il mio corpo e soprattutto la mia anima.
Ero finalmente libera di conoscere me stessa e di scegliere la vita che volevo nella mia nuova città.