domenica 9 ottobre 2011

.. batte il cuore il senso di una canzone..

sensi.
sei sono i sensi:
olfatto
gusto
tatto
udito
vista
cuore.
cuore.
cuore.

batte il tempo.
il cuore.
di una canzone.
un paio di ali al vento.
questa immagine mi dona pace.
ali sospese al vento.

batte il cuore.
il senso del tempo.
ali sospese.
ali.
senso. 

mercoledì 28 settembre 2011

Un paio di ali al vento

guido velocemente sulla strada che porta
scorrono i manifesti pubblicitari
alla radio una canzone parla di un paio di ali al vento
un paio di ali al vento:

purgatorio.
la sala che detiene i corpi di chi non si arrende.
la donna nera con il pancione e l'ago al braccio.
nota all'ambiente, drogata? prostituta? comunque scacciata
lei e il bambino nella sua pancia che già porta il marchio dell'emarginazione.

vecchi.
tanti i vecchi portati, sani, malati, soli, soli, soli.
e ciò che la scienza fa è allungare la vita
all'eccesso, non importa che talvolta sia meglio morire senza soffrire.
piuttosto che soffrire per poi morire, soli.
allungare la vita? accanimento terapeutico.

sole.
fuori intanto c'è il sole.
filtra attraverso il vetro sporco di sabbia.
sabbia del deserto lontano, sembra.
eppure la distanza non è nulla
per il vento che l'ha trasportata.

tristezza.
il manifesto appeso al cancello chiuso: 'la scuola è morta'.
triste è la scuola in lutto,
perchè è l'unico posto in cui vanno i bambini,
senza protezione alcuna.
la scuola è protezione.
non può morire. salvate la scuola.
salvate i bambini.

strada.
corro velocemente, schiacciata tra orari di ghiaccio
in cui mi muovo quotidianamente.
strada che porta, ovunque e da nessuna parte.
a seconda che ci si transiti e ci si fermi,
in attesa che qualcuno ci scorga.
nessuno.

gioia.
sorrisi e vocine,
giochi.
e occhi innocenti.
l'innocenza di chi ancora non sa.
e crede che tutto scorra, come l'acqua che scende
pura, giusta per esser bevuta, dal rubinetto
pensando che così è qui
come in Africa.

sostanza.
materia che è dentro.
dentro di noi, poca ancora per poco.
ci insegnano ad obbedire da piccoli
per inserirci da grandi in un posto di lavoro,
precario, per il quale non bisogna lamentarsi
ma ringraziare.
grazie al cazzo.

vecchi.
almeno loro da giovani hanno lottato.
hanno trovato il tempo, il modo, la fiducia, la solidarietà
per farlo. e hanno ottenuto quello che noi stiamo perdendo.
siamo incastrati nella corsa quotidiana del nostro fare.
impossibilitati a deviare.
non abbiamo imparato nulla dai vecchi.

crisi.
il comunismo è fallito.
il capitalismo sta facendo altrettanto.
la domanda sorge spontanea.
dov'è la retta via?
forse in una società in cui prima di tutto
vengano: i vecchi, i bambini, la vita, la giustizia...
acqua pura che scorre dal rubinetto,
così qui come in Africa.
non abbiamo imparato nulla dai bambini.
e potrei continuare per ore.
retorica.
retorica...

indietro.
indietro.
tre passi indietro con tanti auguri.

è quel che ci augurano i potenti,
coloro che detengono il potere,
quello di distruggere per avidità.

potere.
possibilità di fare.
potere è volere.
possenza, forza, energia.
volere.
volontà.
siamo nati uomini di buona volontà.
stiamo naufragando nell'insensatezza.

mercoledì 24 agosto 2011

Sera rossa

Era il tramonto di un giorno d'agosto,
di un anno dimenticato.
Eravamo lassù
nel nostro mancato incontro
in quella casa, muro su altro muro,
sopra il lago quieto.
Il sole andava via oltre le colline
e l'umido dell'acqua lento si alzava
a dominare tutto.
Colline quiete, nuvole poggiate sopra,
il silenzio dei monti
il mio viso triste, un sorriso svanito,
le ombre della nostra storia finita
avanzavano oltre i confini
del nostro volere.
L'umido soffoca la sera rossa,
la malinconia pervade i nostri addii
mascherati da parole quiete.
Tutto era quieto.
Io impazzivo.


venerdì 1 luglio 2011

viaggiare..

Tutto è pronto: la valigia,

le camicie, le mappe, la fatua speranza.

Mi spolvero le palpebre.

Ho messo all'occhiello

la rosa dei venti.

Tutto è pronto: il mare, l'atlante, l'aria.

Mi manca solo il quando, il dove,

un diario di bordo, le carte

di navigazione, venti a favore,

il coraggio e qualcuno che mi ami

come non so amarmi io.

La nave che non c'è, le mani attonite,

lo sguardo intento, le imboscate,

il filo ombelicale dell'orizzonte

che sottolinea questi versi sospesi...

Tutto è pronto. Sul serio.

Invano.

Juan Vicente Piqueras

giovedì 23 giugno 2011

Scirocco (racconto pubblicato su antologia della Giulio Perrone Editore)

SCIROCCO


 

"21 Giugno 1967


 

E' costituita in data odierna un'associazione culturale denominata Associazione Scirocco, ai soli fini di propagazione della cultura, della condivisione di pensieri ed ideali comuni atta alla crescita individuale e sociale dei soci che la costituiscono, e nella libera professione delle loro attitudini. L'associazione è apartitica e si fonda su principi di libertà di opinione e di rispetto delle idee dei diversi soci costituenti e di quelli che in futuro ne vorranno far parte…"


 

Incorniciato in un quadro a giorno c'è lo statuto, ingiallito dal tempo, dell'associazione che dal 1967 gestisce questi locali, ora particolarmente polverosi e pieni di fumo.

Quattro vecchi disillusi e con la bestemmia facile sono intenti a giocare a carte, alternando una briscola ad un tresette. Una bottiglia è aperta e nei bicchieri ne spumeggia il contenuto. Il posacenere trabocca di cicche.

Fa caldo.

Non è rimasto altro che un trasandato ritrovo per anziani, gli anziani del quartiere che si ritrovano lì il pomeriggio a bere birra, a fumare e a giocare a carte, nella noia delle loro giornate senza più occupazione. Di fronte al mare di Napoli, anch'esso invecchiato, poco distante dal lungomare, dietro al Castello dell'Ovo.

Nel corso degli ultimi vent'anni l'associazione 'Scirocco' ha perso le sue finalità originarie, divenendo sempre più un decadente ritrovo per delusi pensionati amareggiati.

Tra i quattro vecchi seduti al tavolo c'è anche Mario, uno dei soci costituenti del 1967.

All'epoca Mario aveva appena trent'anni e tantissima voglia di vivere e lottare per una vita migliore. L'idea dell'associazione culturale era nata una sera a cena con dei colleghi, parlando sulla necessità di avere un punto di ritrovo dove poter discutere delle problematiche in fabbrica che riguardavano tutti e sulle quali spesso non avevano modo di confrontarsi. I locali, oltre ad ospitare le riunioni di tipo sindacale, avrebbero però dovuto anche essere un ritrovo culturale dove poter passare in modo piacevole il tempo libero.

Erano anni caldi di lotte sociali e di grandi evoluzione culturale. Il boom economico che aveva seguito la ricostruzione del dopoguerra, tendeva a lasciare il passo ad una maggiore consapevolezza dei diritti di quella classe operaia che tanto aveva dato in termini di fatica alla ricostruzione del paese, e che da lì a qualche anno avrebbe fatto tremare la classe borghese che padroneggiava nel nostro paese come nel pianeta intero. Assecondando questo nascente impulso universale di 'lotta di classe' e della conseguente ricerca di evoluzione culturale, Mario ed i suoi amici decisero di investire i loro pochi guadagni nella creazione dell'associazione.

Trovarono, senza fatica, l'appoggio di altre persone e discusse le modalità di apertura, di organizzazione e di ripartizione delle mansioni, costituirono la gloriosa 'Associazione Culturale Scirocco'.

Il nome era stata un'idea di Mario.

Quell'estate era particolarmente calda ed un persistente vento di scirocco, che rendeva l'aria di color rosso e gli umani di temperamento passionale, soffiava sulle coste della loro splendida e tormentata città, il giorno in cui l'associazione venne creata sulla carta, proprio il 21 giugno, solstizio d'estate.

Presero un locale in affitto, una specie di seminterrato grande e da ristrutturare, fecero una raccolta di fondi tra i sei soci fondatori e tra gli altri trenta che si aggiunsero presto con la ristrutturazione, alla quale parteciparono tutti nel tempo libero con il proprio lavoro, crearono diversi locali: un ingresso ampio e confortevole, la biblioteca, il teatro, la sala delle esposizioni, il bar, i servizi, la stanza dell'amministrazione.

Le pareti furono pitturate di rosso e vi furono affissi diversi manifesti e foto in bianco e nero. Nonostante l'associazione fosse apartitica, proprio come stabilito in chiare lettere nel suo stesso statuto, i soci che la fondarono erano chiaramente di estrazione proletaria e quindi molto vicini a quello che all'epoca era il partito comunista italiano, e gli altri che si aggiunsero in seguito non si discostarono molto da quella origine, andando a formare quella univocità di pensiero, tipica di quel periodo. I soci lavoratori erano tutti impiegati nella fabbrica poco distante, lavoravano sodo fino alle sei di sera, ma poi dopo quell'ora, una doccia veloce, cambio di vestiti e via, all'interno dell'associazione si sentivano finalmente i padroni del proprio tempo. I gestori indiscussi della propria mente. Ce la misero tutta per rendere quel luogo il rifugio nel quale chiunque poteva trovare conforto, compagnia, solitudine, un bicchiere di vino, un libro su cui riflettere, un compagno con cui discutere di calcio, di politica, del tempo che passava.

I trentasei soci decisero di portare ognuno dieci libri, in modo da costituire la biblioteca. Gli stessi avrebbero fatto parte del patrimonio di tutta la comunità, potendo essere presi in prestito gratuitamente proprio come in una normale biblioteca. Il bar venne attrezzato con birre e succhi di frutta. Ogni socio versava una quota fissa ogni volta che prendeva in prestito un bicchiere. Con quello, poi, poteva pure sbronzarcisi, il costo non cambiava.

Il teatro venne attrezzato in un locale lungo e stretto, la larghezza del palco costituiva la larghezza della platea, una cinquantina di posti erano a disposizione dei soci e dei loro ospiti. Ogni settimana veniva ospitata una compagnia teatrale che, in maniera più amatoriale che altro, tentava di rappresentare i grandi drammi di tutti i tempi, spaziando da Shakespeare a De Filippo.

D'estate veniva organizzato, con grande successo di pubblico, il cineforum. Durante i fine settimana, infatti, sul palco veniva sistemato un ampio telone bianco sul quale venivano proiettati film presi in prestito alla Cineteca Nazionale. Nell'atrio padroneggiavano le locandine più belle, con sopra scritto 'IMMINENTE', proprio come nel cinema della parrocchia. Donne procaci e giovani dalla battuta facile seguivano, sventolandosi per il caldo, le trame dalle più drammatiche a quelle del comico più amato, Totò. Anche gli anziani sempre più spesso cedettero alla tentazione ed iniziarono così a frequentare il cineforum, soprattutto quando ad essere proiettati erano i film di guerra, di quelle due ultime guerre alle quali avevano partecipato, e che quasi increduli, vedevano ora scorrere su un fondale bianco come fosse cosa a loro estranea, commentando ognuno a modo suo la propria partecipazione.

In quelle occasioni il pubblico raddoppiava e quasi tutti i residenti di quel quartiere, nel giro di qualche anno, erano riusciti a rivedere i film da loro amati in passato, con particolare riferimento alla cinematografia napoletana.

Beatrice entrò per la prima volta in quei locali nel 1968, in Giugno.

Era bella, un vestito corto e fantasioso le fasciava il corpo dalle forme arrotondate. I capelli racconti nella classica banana dell'epoca le lasciavano scoperto un viso dai lineamenti delicati e dal sorriso solare.

Le braccia e le gambe nude, a mostrare la pelle abbronzata dal sole generoso che imperava sulle spiagge di Napoli.

Mario non appena la vide ne rimase abbagliato. Era una turista, non l'aveva mai vista prima nei paraggi.

Anche quel giorno spirava un caldo vento di scirocco che obbligava i napoletani a lamentarsi usando i termini dialettali più svariati, e a sventolarsi con qualsiasi cosa avessero per le mani, anche un semplice biglietto del tram. Beatrice no, lei non era napoletana ed il caldo lo sopportava meglio, venendo da un città del nord che sei mesi l'anno era invasa da una nebbiolina grigia e fredda.

Fatta la tessera come nuova socia, Mario si apprestò a mostrarle, con non poco orgoglio, i locali e le finalità dell'associazione.

La biblioteca, il teatro, il bar, spiegando in maniera ridondante quanto il tutto fosse frutto del loro personale impegno. Poi dopo averla lasciata, per ritornare alle proprie mansioni di cassiere, continuò a seguirla con lo sguardo. Beatrice tornò nella biblioteca e dopo una decina di minuti ne uscì con un libro in mano. Mostrando la tessera lucida, appena fatta, chiese con un particolare accento del nord, di poter prendere in prestito quel libro: Poesie d'amore di Pablo Neruda.

Mario, espletate le pratiche del prestito, sorridendo come un ebete la salutò cercando di tenere a bada il suo accento napoletano e di parlare più italianizzato possibile, ed esortandola a ritornare presto.

Dopo qualche giorno Beatrice tornò riportando il libro preso in prestito e prendendone un altro: Poesie di Garcia Lorca. Dopo tre giorni la scena si ripeté. Beatrice prendeva sempre dei libri di poesie. Null'altro. Ogni volta Mario la salutava sorridendole ma senza riuscire a dirle nulla di più di un frettoloso saluto, snaturalizzato dalla sua attenzione al linguaggio formale.

Allora, tormentato dalla timidezza a cui non riusciva a mettere rimedio, prese una decisione.

Una notte, non appena anche l'ultimo socio era andato via, si chiuse nella biblioteca e, registro alla mano, cominciò a contare i libri di poesie che lei non aveva ancora preso in prestito. Ce n'erano ben ventidue. Allora pensò di scrivere su quei libri qualcosa per lei. Prima o poi li avrebbe letti e necessariamente avrebbe scorto quei pensieri tra i versi dei suoi poeti preferiti.

Riunendo tutti i libri sulla sua scrivania cominciò a sfogliarli. Non appena trovava uno spazio libero scriveva a matita una frase per Beatrice.

Sul primo libro annotò:

'la pelle tua, Beatrice, ricorda il colore del grano, ma se tu fossi grano, sebbene affamato, non ti mangerei, essendo mio nobile compito quello di conservare la tua freschezza odorosa tra il panno caldo dell'amore'

e poi sul secondo:

'espliciti gli occhi tuoi, consapevoli della loro bellezza, esprimono il meglio dell'anima tua che leggo sorridente come la bocca da cui vorrei esser eternamente baciato'

e ancora sul terzo:

'sogno il sapore dolce delle labbra tue di miele, per te mia ape regina morirei per un sol tocco'

sul quarto:

'una vile timidezza non mi permette di dichiararti la mia passione, ma tra i versi di chi ha sofferto per amore ed è riuscito a confessarlo, trovo il coraggio di votare la vita mia alle rotondità dei fianchi tuoi'

e poi sul quinto:

'amo la forma delle dita tue leggiadre e le sogno su di me. Amo la forma del corpo tuo ed è su di me che lo desidero fortemente. Amo la forma della mente tua che si nutre di versi d'amore'

sul sesto:

'il nome tuo ispirò il sommo poeta. Beatrice, la beatitudine che mi doni ogni volta che penso al possibile amore tuo per me, e alle gambe tue lunghe, ispira i migliori sogni miei'

sul settimo:

'oltre i colli delle natiche tue tramonta il sole più vitale di Napoli, tra le onde del seno tuo sogno il riverbero della luna piena che nel mare di Napoli si specchia'

sull'ottavo:

'il vento di scirocco che ti ha accompagnato qui la prima volta, continua a smuovere la smania mia per te: è impresso negli occhi miei il viso tuo accaldato ed il vestito appeso alle forme tue meravigliose'

sul nono:

'quest'estate, la più calda estate della vita mia, è sbocciata come un fiore. Come te Beatrice che sei il fiore più invitante di cui abbia mai avvertito il profumo'

e cosi via fino al ventiduesimo libro.

Finito il lavoro Mario, soddisfatto dei suoi versi d'amore che gli erano sorti dentro in modo quasi inevitabile come un sole all'alba, ripose i libri negli scaffali ed andò a casa. Quella notte non dormì e l'idea che lei presto li avrebbe letti, nonché la sfacciataggine con cui aveva dichiarato i suoi desideri lo tormentò a lungo.

Era il 21 giugno del 1968, solstizio d'estate.

Una notte caldissima. Fuori e dentro di lui.

Il giorno seguente Beatrice entrò e prese in prestito il suo ennesimo libro di poesie.

Mario non sapeva su quali libri aveva scritto cosa. Quindi non sapeva bene quale frase lei avrebbe letto, ma di sicuro la prossima volta che sarebbe tornata avrebbe potuto studiare la sua reazione.

Poi colto da un dubbio atroce cominciò a pensare: in fondo non sa neanche chi gliele ha scritte quelle frasi. Non solo, su molte non c'è neanche il suo nome quindi potrebbe pensare che un lettore qualsiasi abbia annotato lì qualche frase d'amore destinata alla sua bella, magari ispirato dai versi che stava leggendo. Oppure potrebbe arrabbiarsi e pensare chi ha osato prendersi tanta confidenza. In fondo è una donna così seria... Oppure potrebbe pensare che gliele ha scritte Ciro il barista, o Peppe l'addetto al guardaroba, o proprio Arturo che cura la biblioteca. Qualcuno di questi è anche più bello di me. Magari potrebbe credere che sia un altro a fargli la corte, magari proprio quello che piace a lei. In questo caso si creerebbe un equivoco mostruoso. Potrebbe addirittura finire che lei incoraggi colui che le piace e lui, l'incoraggiato, potrebbe farsi avanti. Tutto sotto i miei occhi. Oddio! San Gennaro... perchè non mi hai illuminato prima?. Avrei dovuto inserire il suo nome in ogni frase, avrei dovuto firmare le frasi, così non ci sarebbe stata possibilità d'errata interpretazione. Sono io. Solo io che ti amo, vita mia. Ma ormai devo solo aspettare che torni e vedere cosa succede... San Gennà aiutami tu!

Le notti che seguirono furono molto agitate per Mario, ma anche per Beatrice.

Ed il motivo non fu soltanto il caldo insopportabile e quel vento di scirocco che faceva suonare l'aria.

Dopo tre giorni Beatrice tornò. Entrando cominciò a girovagare per i locali dell'associazione. Si fermò al bancone del bar e per la prima volta consumò una birra. La bevve lì davanti al barista fissandolo negli occhi. Poi si spostò ed andò in biblioteca ripose il libro di poesie che aveva appena letto e ne prese un altro. Ovviamente sempre poesie.

Si avvicinò all'uomo che stava sistemando gli scaffali e gli chiese qualcosa, mentre lui rispondeva compito, lei lo fissò negli occhi.

Poi allontanandosi entrò nella stanza dell'amministrazione e parlando con l'addetto rimase almeno un paio di minuti a fissare lo sguardo del suo interlocutore. Infine si diresse verso Mario e presentando la tessera lucida rimase qualche secondo a scrutare nello sguardo di quel giovane che, ogni volta, le sorrideva imbarazzato senza mai pronunciare una parola di più. I loro occhi si incontrarono.

Mario non ebbe dubbi.

Lei aveva capito!

Beatrice non ebbe dubbi.

Il suo ammiratore segreto era stato scoperto!

Si sfiorarono la mano.

Non appena Beatrice scomparve oltre la porta Mario si affrettò ad andare in biblioteca per vedere quale frase per prima era stata letta da lei. Prese in mano il libro appena riposto e sfogliandolo velocemente scorse dei segni a matita.

Lesse la sua frase, era bella, sensuale. Ne era soddisfatto, si sentiva un poeta. Non citava il suo nome ma citando qualcosa chiaramente appartenente a lei non aveva lasciato dubbi alla giusta destinataria: quella frase era stata scritta proprio per lei da un ammiratore che lei non avrebbe fatto fatica a scoprire. Ma poco più in basso c'erano degli altri segni a matita.

Era una risposta.

Beatrice aveva scritto qualcosa. Mario, con il cuore in tempesta, lesse:

'Magnifico! Un vero ammiratore segreto. Chissà quanto impiegherò a scoprire chi fa certi pensierini, mischiando sole e luna, sulle mie natiche e sulla fossa tra i miei seni?'

Sorrise, arrossendo. Bè era un poeta un po' bizzarro, ma pur sempre un poeta. Pensò di sé. Poi ripose il libro al suo posto.

Era bastato un solo libro, un solo cenno per farsi scoprire da quella donna. Non solo era bella Beatrice ma era riuscita a dimostrargli in così poco tempo la sua intelligenza, il suo acume, o semplicemente il suo spiccato istinto di femmina. E femmina lei lo era tanto, ed era questo che in assoluto stava facendo impazzire il povero Mario, che provò un'attrazione ancora maggiore verso quella donna che trovava bella, intelligente e anche ironica, sorrise di nuovo ripensando alla sua risposta.

La sua passione era in preda allo scirocco che ormai lo governava da dentro, non era più una questione climatica o geografica, poteva anche essere il quindici febbraio, al polo nord, quel calore dentro non lo avrebbe più abbandonato.

Passarono altri giorni e Beatrice ad intervalli regolari si recava presso l'associazione per riportare il libro di poesie preso la volta precedente e sostituirlo con uno nuovo.

Ogni volta prima di uscire passava da Mario e guardandolo sfrontata lasciava i suoi dati per il prestito. Prima di andare i due si sfioravano la mano.

Un'emozione incalzante si stava alimentando con quei piccoli gesti al tempo stesso contenuti e maliziosi.

Ogni volta lei lasciava scritta una risposta alla frase trovata. Ogni volta Mario sorrideva dei suoi ironici responsi, ma quel singolare scambio epistolare era ormai diventato il cibo con cui i due alimentavano la loro straordinaria passione.

Un giorno Mario si fece coraggio e scrisse un biglietto con il quale intendeva invitare Beatrice. Glielo avrebbe infilato nella mano appena se ne fosse presentata l'occasione.

Scrisse:

"Mia bella fanciulla del nord, mi stai nutrendo di illusioni ma, ahimé, non mi bastano più… Sogno mio vorrei invitarti a vedere il più bel film d'amore di tutti i tempi. Domani sera alle 22,00 in questa sala, tutta per te, ti donerò un miraggio d'amore in bianco e nero, della nostra Napoli migliore. Ti prego non deludermi. Ti aspetto. Tuo Mario".

Beatrice venne la domenica. Il giorno successivo il circolo sarebbe rimasto chiuso per il riposo settimanale. Era il momento giusto per darle il biglietto.

Quando si avvicinò con la mano per la consueta carezza Mario le infilò il biglietto, mentre arrossiva a causa della sua innata timidezza e per l'eccitazione suscitata dal proprio dito che si insinuava nel pugno chiuso di lei.

Beatrice strinse il dito e poi portò via con sé il foglietto.

Il giorno dopo, puntuale, alle ventidue bussò al portone dell'associazione.

Ad accompagnarla un caldo vento di scirocco.

Beatrice aveva accettato l'invito, Mario si sentì emozionato come non mai.

Aprì la porta e la fece accomodare. Accennarono un saluto e la bocca di lei si illuminò in un sorriso. Mario si era vestito di tutto punto e lei lo trovò stranamente buffo così combinato. Lui le baciò la mano e la fece accomodare sulla poltrona più centrale della platea. Tutt'intorno aveva posizionato delle margherite gialle.

  • Sei molto bella Beatrice ed io sono felicissimo di averti qui.
  • Anche tu sei … carino… ti sei messo tutto elegante.
  • Bè... l'occasione meritava.
  • Che film vediamo?
  • Ho scelto un classico, spero che ti piaccia, ti farà innamorare della nostra bellissima città...
  • Vedremo.
  • Ti prego aspetta qui. Ti porto qualcosa da bere.
  • Va bene, grazie.

Mario tornò con un bicchiere di vino bianco freddo e delle noccioline. Poi le baciò nuovamente la mano e si allontanò per raggiungere la saletta di proiezione.

Aveva preparato le bobine. Erano quattro bobine di pellicola infiammabile. Tanto per la materia di nitrocellulosa con cui era costituita la pellicola tanto per la passione dei protagonisti. Un tenero Marcello Mastroianni ed una esplosiva Sofia Loren, nella strepitosa interpretazione di tre episodi di una Napoli passata, presente e futura.

Mario si era fatto spiegare dal socio proiezionista tutto quello che avrebbe dovuto fare per il cambio delle bobine, così iniziò la proiezione.

Beatrice guardava la pellicola emozionata. Sapeva che tutto questo era stato organizzato per lei da quel tipo tenero e goffo allo stesso modo. Tanto timido nei modi quanto sfrontato nei versi che le aveva dedicato. Dopo una ora e più di visione si alzò in piedi e raggiunse il palco del teatro, sopra il quale era stato sistemato il telone per le proiezioni. Vi salì sopra e pian piano iniziò a spogliarsi. Dolcemente. La sua sagoma veniva oltrepassata dalle immagini che si posavano sul fondale spezzate dalle sue forme, e Mario rimase a guardare quello spettacolo estasiato. Un corpo bellissimo di donna nuda sulla cui pelle scorrevano le immagini di uno dei suoi film preferiti.

Beatrice si stese sopra il palco. Una gamba allungata a terra e l'altra piegata. Nel triangolo che si era formato nel loro interno e tutto intorno a lei continuavano a scorrere le immagini della pellicola. Le braccia stese oltre la testa. Ad accentuare le forme del suo corpo il bagliore di quelle immagini in bianco e nero spezzate dalla luce emanata dal suo corpo.

Il respiro le gonfiava il petto e quell'andamento ricordò a Mario il costante andirivieni delle onde del mare della sua bella città.

Mario abbassò l'audio al minimo e sporgendosi dalla finestrella della saletta di proiezione, proprio sotto al proiettore, udì il respiro di lei. Ansimante, costante, lento ed invitante.

Lasciò la saletta e la raggiunse sul palco.

Le si avvicinò cominciando a baciarla.

Finalmente i due si erano trovati.

Sopra il palco di un teatro dallo sfondo rosso.

Loro due, interpreti singolari di una passione vera, sopra un palcoscenico fino a quel momento vissuto esclusivamente da finzioni.

Il crepitio di quell'alcova di legno che accoglieva i loro corpi sudati, faceva da sottofondo ai loro sospiri.

Era la prima volta che qualcosa di reale, fondato, verace accadeva in quell'angolo di vita artefatta.

Iniziarono un amplesso fluttuante che si intonava ai toni della pellicola che continuava a scorrere sui loro corpi chiari e sudati. Le parole di 'Abat-jour' ed i movimenti del più famoso strip-tease italiano dell'epoca, ben si accordavano con i respiri corti e travolgenti originanti dalle loro bocche semiaperte, dalle quali usciva un caldo vento di scirocco.

Il risultato della fusione di quei due corpi diventò il telone carnale sul quale far scorrere quelle immagini di passione e vita.

I due giovani amanti si amarono complici i protagonisti di quella pellicola che raccoglieva la loro intimità. Tra un sospiro e l'altro si promisero amore eterno.

E Beatrice lo fece con grande serietà.

Passarono un'intera estate, la più calda degli ultimi anni, governata da un costante vento di scirocco, in cui tutti i lunedì, giorno di chiusura del circolo, i due si incontravano sopra quell'incredibile palcoscenico. Ogni volta una pellicola diversa a scorrere sui loro corpi sudati. Passione o morte, odio o amore, una città calorosa o sanguinante, insomma la loro Napoli con tutte le sue contraddizioni, che li ospitava durante un tempo fermo, della durata di un'estate.

Passarono due lunghi mesi caldi, un'intera estate, durante la quale le parole furono superflue. Erano mossi da una passione carnale talmente travolgente che nessuno dei due ebbe bisogno di chiedere nulla all'altro. I due giovani amanti godettero di quella passione straordinaria fino all'ultimo lunedì d'agosto.

La domenica successiva Beatrice entrò nell'associazione, scelse il suo libro di poesie ed all'uscita mise un biglietto nella mano di Mario.

Non appena lei se ne andò lui aprì il biglietto e lo lesse:

Devo partire. È stato bellissimo. Non lo dimenticherò mai. Non ti dimenticherò mai. Sarà inutile cercarmi, non farlo Beatrice.

p.s.: il libro di poesie lo porto via con me. Ne farete a meno.

Mario ebbe un tuffo al cuore. Non pensava che la loro storia finisse così presto, ed in quel modo. Accartocciò il biglietto e si scaraventò fuori cercando di scorgerla.

Ma non la vide. Corse prima in avanti, poi indietro e quindi a sinistra. Poi a destra.

Di Beatrice nessuna traccia.

Solo il profumo che era rimasto nella sua mano.

Fuori un forte vento di tramontana e nuvole nere erano il preludio di un autunno anticipato.

Con la morte nel cuore Mario strizzò gli occhi. Ne uscirono lacrime amare.

Non la vide più.


 

Mario è intento nella sua partita a briscola. Fuma una sigaretta dopo l'altra. Il viso tirato segnato da rughe. I vestiti malconci.

Sono passati più di quarant'anni da quell'addio ingiusto, inspiegabile.

Mario non ha mai dimenticato la sua Beatrice.

Si è sposato in seguito. Ha avuto dei figli. E' stato anche sereno. Felice no.

La sua vita è trascorsa nella normalità.

Quello che lui aveva vissuto con quella amante straordinaria le era rimasto impresso nel dna, in ogni singola cellula del suo corpo. Ed ogni giorno quelle cellule animate dall'energia vitale con cui ogni mattina si svegliava per adempiere ai suoi doveri di lavoratore, marito, padre, gli ricordavano il peso di quella felicità che con il tempo si era trasformata nella costante inquietudine che non lo avrebbe mai più abbandonato.

Non avrebbe potuto mai essere felice come lo era stato quell'estate con lei.

Un estate indimenticabile per lo scirocco che lo aveva tormentato sia dentro che fuori.

E di ciò ne era tanto consapevole quanto rassegnato.

Suonano alla porta. I quattro fermano quella briscola abituale. Mario si alza e va ad aprire. Il postino gli consegna un pacco. È indirizzato a lui.

Sopra c'è scritto:


 

A Mario

Associazione Culturale 'Scirocco'

nei pressi del Castello dell'Ovo

Napoli


 

Mittente: Beatrice.


 

Mario getta la sigaretta a terra ed agguanta il pacco.

Non crede ai propri occhi.

Soltanto adesso, passati quarant'anni, leggendo quei nomi semplici si accorge che nessuno dei due aveva mai chiesto all'altro neanche quale fosse il suo cognome.

Certo lui il cognome di lei lo conosceva perché segnato sulla tessera di abbonamento ma lei non gli aveva mai chiesto nulla circa la sua identità.

Lui aveva anche tentato di rintracciarla, dopo quella fuga inaspettata, trasgredendo agli ordini di lei. Aveva provato più volte, ma sempre senza alcun risultato.

Mario sente le mani tremare.

Sono passati quarant'anni e lui ha appena ricevuto un pacco provenire da un passato remoto che lui non ha minimamente dimenticato.

E' il 21 giugno dell'anno 2010.

Fuori un caldissimo vento di scirocco.

Lo scarta e dentro vi trova il libro di poesie che lei aveva portato via quell'ultimo giorno.

Avvicina quel libro al viso e gli arriva il profumo di lei.

Un profumo di bambina che lui non aveva dimenticato e che ora a distanza di tanto tempo non ha esitato a riconoscere.

Apre il libro ed inizia a leggere velocemente alcuni versi.

Poesie d'amore.

Parole d'amore.

Pensieri d'amore.

Di questo lei si nutriva ed ora lui ne diventava nuovamente consapevole.

Scorse la frase scritta a matita da lui, tanto tempo prima. Appena sbiadita.

Sorrise.

Sfogliò fino all'ultima pagina e lì vi scorse parole scritte da lei, una goccia di sudore gli cadde dalla fronte a bagnare quelle parole ingiallite:


 

Non ti ho mai dimenticato amor mio.

È nel ricordo di questo amore perfetto che ho vissuto felice tutta la mia esistenza.

Ogni volta che ne ho avuto bisogno ho pensato a te e la reminiscenza della nostra passione non sfruttata mi ha risollevato dagli inganni della vita.

Non ho voluto far maturare la nostra passione per paura di perderla. Di perdere quel dono che pochi nella vita riescono a provare.

La mia follia mi ha ripagata di un amore giovane, mai invecchiato, mai sbiadito, mai perso nella consuetudine delle cose banali. Eterno come le frasi a matita scritte da te, che però non si cancellano mai.

Il ricordo che ho di te è di un giovane uomo tenero, timido, passionale e ciò è immutato nel tempo. L'immagine che mi è rimasta del tuo corpo è di un bellissimo uomo nel fiore dei suoi anni migliori.

La quotidianità uccide le passioni proprio come un vento di tramontana freddo e violento spazza via il vento caldo di scirocco, portando a termine l'estate.

Ho voluto sospendere la nostra relazione per renderla come quei film le cui immagini ogni volta proiettavamo sui nostri corpi gioiosi.

Immagini eterne, ferme nel tempo, indistruttibili..

Testimonianza di perfezione e pura bellezza, che non invecchia mai. Nonostante il tempo.

Proprio come i versi di questo libro che finalmente ho trovato il coraggio di restituire.

Tua Beatrice per sempre.

venerdì 13 maggio 2011

Luna calante

Luna calante
Fate silenzio, voi poveri uomini persi
Disordine di un mondo febbricitante
Ascoltate quella voce devota
Canta il bambino la nenia della tata
Sotto il tetto di stelle e lo spicchio di notte
Canta il bimbo coi suoi occhi sognanti
Che sogni, chi ha perso ai dadi il sorriso dei giusti
Suono di filastrocca fluttuante
E osservate le stelle e la notte e gli astri lontani
Immaginate le infinite lune orbitanti
Incastrate nel girotondo d’arte
Inventato dal regista geniale di un mondo pulsante
A rinfrancar lo spirito del bimbo cantante
Ecco la fata, la strega e il cavaliere
Via da quel sonno vagante
A cavalcare gli epici eventi
Seguendo il filo di luce di una luna calante
Fate silenzio, voi poveri esseri perduti
Ritrovate la magia dell’infanzia
Che continua a cantare la nenia della tata
Sotto un cuore indurito di malta
Cullate il bimbo, cullate la tata
Cullate i sogni e la luna calante
Cullate quel miraggio primordiale di eventi
Che rendono grandi tutti i bambini sognanti
Nicoletta Stecconi

martedì 12 aprile 2011

leggendo Hikmet

(e mi vedo sopra la città volare
angelo miope,
e guardare e cercare
notte, come questa notte,
mi culla lontana notte di malinconia,
e mi vedo sopra gli amanti
ascoltare battiti,
cuore di città che batte
ali di nottola persa
sola nella notte, battito di ali notturne
e mi vedo sopra la città cielo scuro
e sotto luci di giorni stanchi
e guardare e cercare,
angelo miope
luce, luce fioca che ancora
rischiara la stanza, profili di amanti,
cuori che battono
battono il tempo dei minuti notturni
scorrono lenti, perchè notte
è tempo di pausa, di tregua
e la città spenta, attende
alba di pace)

Nicoletta Stecconi

domenica 10 aprile 2011

Occhi di sale

Occhi di sale,
parole di pioggia,
gesti di sole tiepido,
a finire una stagione
e a rinnovarne un'altra
e mare inquieto che accoglie.

Amo il mare, più di ogni altra cosa.
E' il sale.
E odore di terra bagnata.

Mi siedo sulla riva ad aspettare,
attendo che un'onda ogni tanto
venga a lavarmi
ad ogni tocco
più salata.

Mi lecco la pelle,
sole,
è il sale,
più di ogni altra sostanza,
a deliziarmi il palato.

Occhi di sole
Occhi di mare
Occhi di sale

Ecco cos'è! Occhi,
ci sono persone nello sguardo,
tengono tutto l'ardore
e gli vedi scorrere il mare
e capacità di rubare, donare,
è il sale.

Ecco cos'è! Occhi,
non ci vuole tanto a capirlo,
persone alla deriva,
soli spenti, lune senza orbita,
occhi pieni di niente.

Poi ci sono quelli che appena li guardi
mondo intimo pulsante
un intero pianeta bagnato
e mare salato
nel quale non smetteresti mai di morire..
 
Nicoletta Stecconi
(hanno detto di questa poesia, cose bellissime!)

Istanbul, un sorriso, una ruga

Racconto pubblicato nell'antologia 'La vita che vorrei' edita dalla Giulio Perrone Editore

Istanbul, un sorriso e una ruga


Fui messa al mondo nel 1945 in Francia da una giovane zingara, sola e disperata.
Dopo pochi giorni mia madre mi vendette ad una famiglia di contadini poverissimi, che mi presero pensando che una femmina avrebbe potuto, un domani, far da serva ai loro figli maschi.
Storie assurde da fine guerra, periferie di estrema povertà.
Dopo il mio arrivo, ai miei nuovi genitori vennero altri figli, tutte femmine.
Un giorno, ero già grande, quello che avrebbe potuto essere mio padre decise di vendermi a Madame.
In fondo - spiegò a sua moglie - sarà sempre meglio che morire di fame insieme a tutti noi.
La donna, che avrebbe potuto essere mia madre, accettò quell’assurdo destino con la stessa rassegnazione con cui continuava a mettere al mondo i suoi figli.
Mi vendettero a Madame per pochi franchi, appena sufficienti per acquistare un piccolo terreno da coltivare.
Madame mi portò a Parigi, nella sua grande casa.
Ero spaventata ma anche curiosa. Avevo solo sedici anni.
Mi fece lavare da alcune donne che mi strigliarono neanche fossi un vitello appena nato.
Fui vestita di biancheria fine e abiti di seta succinti.
I miei capelli biondi lasciati sciolti sulle spalle.
Fui condotta da Madame.
Avevo solo sedici anni e nonostante quel corpo da donna fatta, dentro non ero che una bambina, ingenua, inconsapevole, e soprattutto tradita.
Madame quella notte mi tenne con sé, nel suo letto.
Sei molto bella, così pulita sembri un’altra - disse - ho scelto bene la mia merce.
Rise Madame, sorprendendosi della mia spontanea reticenza alle sue ambigue attenzioni.
Ti insegnerò tutto – disse -sarai la più apprezzata. Se vorrai, diventeremo ricche.
Rise ancora quando allontanai la sua mano dal mio corpo. Rise sonoramente mentre riponeva con fermezza quella mano, a vantare la proprietà della merce appena acquistata.
Quella notte Madame forgiò la sua mercanzia con un marchio che mi avrebbe scottato sulla pelle per molto tempo. Il marchio del possesso mischiato alla lussuria.
Mi fu assegnata una stanza, bella, elegante, con un letto a baldacchino nel centro.
La casa di Madame, capii più tardi, era di alto livello. Uomini facoltosi e di potere la frequentavamo contando sulla qualità della merce e sulla riservatezza della padrona.
Io fui destinata agli ospiti più importanti.
Avevo solo sedici anni, ma dalla mia nascita ero già stata venduta più volte e quello sembrava essere il mio destino. Non riuscivo nemmeno ad immaginare un’esistenza diversa. Non sapevo quale vita avrebbe mai potuto essere la mia.
Pierre era un pittore, di quelli stravaganti e stranamente ricchi. Non era certo la sua arte a renderlo ricco, bensì l’appartenenza ad una nota e facoltosa famiglia borghese.
Quando venne, Madame non esitò a bussare alla mia porta.
Avevo diciassette anni quando Pierre mi chiese di scappare con lui.
Sei la mia ispirazione migliore - disse - i miei nudi avranno il tuo corpo.
Per evitare le ire di Madame lasciò una cospicua cifra sul letto. 
Pagandomi salata mi portò via con sé.
Andammo ad Istanbul.
I suoi quadri ebbero la forma del mio corpo. E del mio viso. Ma un’anima irriconoscibile apparteneva a quelle sembianze.
Il tuo corpo è acerbo - sosteneva sempre Pierre - mentre il tuo sguardo atavico. È questa ambiguità che più mi ispira. Sarai mia per sempre.
In fondo mi aveva comprata.
Dopo qualche anno, una sera, decise di condurmi in una fumeria d’oppio.
Vedrai sarà bello - mi rassicurò - verranno alcuni amici, rimarremo qualche giorno lì. Sarà come restare nel limbo.
Lo seguii senza batter ciglio. Non ero più la puttana di Madame ma la donna di Pierre, quindi obbedii.
Nella fumeria, ricavata illegalmente nel locale sotterraneo di un magazzino di tessuti, mi accomodai su un tappeto, all’angolo di una stanza senza finestre, riparata da alcuni paraventi dal disegno orientale. L’aria era quasi soffocante.
Una coltre di fumo riempiva l’ambiente.
Pierre mi fece fumare per ore, fino a quando persi coscienza di me.
Ricordo, come fosse un sogno sbiadito appartenente a qualcun altro, l’arrivo dei suoi amici.
Per una volta non fui venduta ma soltanto data in prestito.
In quelle ore, insieme alla coscienza, persi anche quel briciolo di dignità che credevo aver riconquistato negli ultimi anni vissuti insieme a Pierre.
La terza notte arrivò Siddik.
Era un pittore turco, amico di Pierre. Colui che lo aveva convinto ad andare in quella assurda e meravigliosa città.
Siddik non fece come gli altri.
Mi osservò a lungo, poi si sedette accanto a me prendendomi la mano. Mi parlò, a voce bassa, in un francese tentennante e ridicolo.
Non ti preoccupare, cheri - mi disse - nessuno ti toccherà, adesso ci sono io.
Pierre era scomparso, seppi in seguito che si era appartato con un’altra donna, riparato da altri paraventi dal disegno orientale. Era quello il modo con il quale lui lasciava le donne di cui si era stancato.
Siddik mi portò via con sé.
Mi condusse nella sua casa, un piccolo monolocale nel centro di Istanbul. Mi fece un bagno e mi cedette il suo letto.
Vegliò su di me per tutto il tempo che dormii.
Al mio risveglio, molte ore dopo, lo trovai con gli occhi tondi, intento a scrutarmi.
Non ti preoccupare, cheri - mi sussurrò - è tutto finito. Tempo fa ti ho sognata e la mattina al risveglio, ti ho dipinta. Ma non credevo che tu esistessi veramente.
Alzandomi scorsi dalla finestra oltre la maestosità del Bosforo, la Moschea Blu, illuminata da un malinconico tramonto.
Avevo assistito a molti tramonti ad Istanbul, ma quello fu come se fosse il primo. 
Siddik mi portò davanti ad una tela.
Su quella tela c’era il mio corpo coperto da un vestito dai colori vivaci, il mio viso sorridente sotto un cappello di paglia a larga tesa, sulla fronte una ruga profonda, tra le dita una margherita. Dietro di me lo sfondo incerto di chi deve ancora decidere le forme ed i colori di un destino.
Adesso so come dipingere lo sfondo – sussurrò con voce dolce - lo leggo nei tuoi occhi.
Quello era il mio corpo e quello il mio viso, ma la cosa che più mi stupì fu riconoscere la mia anima, svelata a me stessa per la prima volta, da quel sorriso e quella ruga.
Immaginai il fondale di quel ritratto, lo vidi nel tramonto che avevo scorto poco prima dalla finestra.
Avevo solo vent’anni, e non avrei più permesso a nessuno di vendere il mio corpo e soprattutto la mia anima.
Ero finalmente libera di conoscere me stessa e di scegliere la vita che volevo nella mia nuova città.

venerdì 1 aprile 2011

L'angelo dell'amore

Non dormiva mai, ore contate nel buio,
angelo dell’amore,prima della nascita del sole.

Pallore lunare sul volto, membra sottili
oniriche sensazioni, carezze di soavi emozioni,
musica di notturni armoniosi.

Si affacciò ed in bilico sull’orlo di un baratro,
sotto la luna padrona, scorse lui, occhi di fuoco.
Animale notturno, cercatore smanioso di un metallo prezioso
non ancora scoperto, in un’epoca remota,
durante un tempo vergine, eroe solitario, creatura mai nata.

Con cenno veloce le mostrò il suo antro, la testa le girò,
il suono di un’arpa impregnava lo spazio,
il suo andare smarrito dal riferimento primario,
ricordava l’errare di un’anima inquieta.
                                              
Porse la mano, e colui che vagava finalmente si vide,
sorrise, si aggrappò a quell’arto di sogno e salì,
la luna lo illuminò e ne riconobbe l’affinità.
                                              
Dolce fu il risveglio del giovane,
prigioniero della sua stessa essenza,
sorrise alla luna padrona.

La notte si fuse con il giorno, la luna con il sole,
il mare con il cielo, la finzione con la realtà,
l’anima inquieta con l’angelo dell’amore,
ne seguirono giorni di armonica pace e notti di smisurata passione.

L’angelo prese il giovane sotto il suo mantello di luce
e lo portò nel cielo a volare,
finalmente libero il giovane scorse lontano
quel tesoro anelato, il metallo prezioso appena scoperto,
il grembo in cui non era stato ospitato,
la selvaggia savana dove cacciare,
la vicenda gloriosa nella quale morire,
allungando la mano toccò tutto questo
e finalmente
quell’inquietudine smise.

Nicoletta Stecconi

sabato 26 marzo 2011

Eden perduto (nostalgia che mi porti via)


Eden perduto

nostalgia di te,
sfogliarti come un libro, ancora,
pagine profumate di carta sconosciuta,
e infinite dita che le hanno carezzate,
ancora, la brama giunge al sol pensiero.                          

nostalgia è l'idea del piacere trovato e perduto,
incalzato dal desiderio,
e dai sublimi miraggi che giungono,
accarezzano l’anima con mani ferme, sicure,
e unghie che lasciano i segni di un’assenza vitale.

e ancora, il respiro, l'affanno e l'idea di te,
la forma della tua forma sulla mia, intorno a me,
e l'anima mia ride,
e si diletta al piacere di averti avuto,
carnale ed etereo, amico solitario e lontano.

piango e sorrido, il corpo si inquieta,
mani che vagano e cercano, trovano e prendono,
baci e sorrisi, baci, baci,
arriva all'improvviso come un orgasmo inatteso,
eccola, amore, sapore, odore, e tremore: nostalgia.

poi piano si scioglie,
fiume che sfocia nella verde pianura di pace,
ancora il cuore batte e la mente ricorda,
la gioia, il piacere, la cura, l'amore,
e riparte in cerca del dolce intendimento
delle anime affini,
eterna ricerca dell’eden perduto.

Nicoletta Stecconi

lunedì 21 marzo 2011

L'amore al tempo dei peperoni

Racconto pubblicato nell'antologia 'In cucina' della Giulio Perrone Editore
L’Amore al tempo dei peperoni


Quando ho bisogno di distrarmi devo fare qualcosa di impegnativo, usare le mani e la testa in un unico senso di marcia, creando qualcosa che ridesti il piacere di vivere.
Ho bisogno di scacciare dalla testa la tua presenza ingombrante che oggi non porta niente di buono.
Ho acquistato verdure di ogni tipo e gli odori, da dosare con armonia affinché la pietanza sia equilibrata. E per la cottura, l’alternanza di fuochi alti e bassi è il vero segreto.
Alti e bassi, le emozioni che mi abitano quando vivo te. La tua assenza costante lascia intatta la mia libertà. Alcune volte  ne gioisco, donna emancipata; altre invece impazzisco, animale in cattività.
Osservo i peperoni nel forno, sono gialli e rossi e verdi, hanno iniziato a scurirsi, ma non sono ancora pronti, hanno bisogno di tempo, ancora.
Ogni cosa ha un tempo suo. Oggi non è tempo per me, i miei pensieri sono ancora acerbi o troppo maturi. Non sono ancora pronta per finire  o proseguire questa storia delirante…
Sto bollendo i fagiolini, poi li condirò aggiungendo la menta raccolta in giardino, quella che cresce spontanea accanto al limone, godendo ogni giorno della sua indispensabile ombra.
Sono la tua menta, godo della tua ombra senza accorgermi che questa è diventata, ormai, frustrante dipendenza: per quanto possa estendermi, le mie foglie non arriveranno mai ad intrecciarsi con i tuoi rami.
Verso le zucchine nell’olio piccante, e poi i pomodori pachino, sanguigni e veraci, talmente belli da far sognare il sole fertile e onesto della Sicilia che li ha maturati, poi una spolverata di sale. Il pomodoro appena scottato, con il sale non ancora sciolto, è tra i sapori che amo. Lecco il cucchiaio concedendomi questo piacere salato.
Un amore segreto è  il sale della vita, amore  lunare, consumato in camere d’albergo, salato eccome, piccante, che tuttavia mi lascia sempre uno stremo di sciapa amarezza.
L’olio è piccantissimo e l’odore che ne viene è appetitoso. Quando mi dedico a quest’arte i profumi dei cibi in cottura, dapprima stuzzicano l’appetito, poi man mano lo calmano, quasi saziandolo.
Non accade con te, maledizione! Non basta il tuo odore a saziarmi. Vorrei ogni volta assaggiarti per poi divorarti voracemente. Davanti a tutti, e confessare all’intera umanità la mia solitaria  natura di lupa, avida di te.
Affetto i pomodori adagiandoli su un piatto di rucola, li accompagnerò con la mozzarella di bufala e foglioline di basilico; nel frattempo apro una scatola di fagioli, quelli di tipo messicano, già piccanti perché provenienti dal sud del mondo, caldo ed invitante. Preparo un sugo con un trito di odori e peperoncino. Sarà la salsa densa e profumata che li accompagnerà.
Sul fuoco alto aspetta la griglia rovente liberando un fumo aromatizzato come se, nel vapore che sprigiona ogni volta, conservasse il proprio passato.
Sono griglia anch’io, e il mio corpo scaldandosi esala ogni volta la sostanza eterea delle tue ultime carezze. Contatti furtivi, eppure così indelebili nell’odore che non mi abbandona mai.
Sciacquo le melanzane, notando come la forma e la consistenza donino piacere già al tatto. Una volta grigliate, le bagno con l’olio e ci verso un trito di aglio e prezzemolo. Saranno più buone nei prossimi giorni, se solo avessi la pazienza di aspettare che si insaporiscano per bene.
Un incontro rimandato porta con sé il piacere dell’attesa, insaporita dal desiderio portato alla lunga e dalle fantasie dell’indugio, peccato che la smania di possesso spesso privi gli umani di questa delizia.
Dalla finestra entrano i rumori del pomeriggio, suoni quasi silenziosi. Nel quartiere c’è poca gente e di rado passano macchine, fa caldo e sudare mentre cucino mi rende viva come non mai. Esco in giardino e non sento altri odori provenire da case vicine. L’aria profuma della calura di agosto, una fragranza che sa di malinconia. Rientro velocemente accorgendomi che, invece, in casa regna un miscuglio di odori felici.
La felicità d'estate è cuocere le verdure.
La mia consolazione d’ agosto, è cucinare per amici cari… visto che tu non ci sei, non mi cerchi, tu lontano dal mio corpo, io fuori dai tuoi pensieri.
Tra un po' avrò diversi piatti sul tavolo, profumati e piccanti.
Quando devo distrarmi ho bisogno di fare qualcosa del genere.
Oggi ci sono riuscita.
Nonostante la malinconia: ora tu non sei più tu ma lui, ed il suo pensiero è meno insistente, rarefatto, disperso.
Tra un po’ arriveranno gli amici con i quali non ho segreti, da sempre.
Racconterò loro di come il mio cuore sia preso da quest’uomo che non mi appartiene, che mangia in un’altra cucina e dorme in un altro letto abbracciando un’altra donna.  
Rivelerò loro la mia pena, davanti alla buona bottiglia di vino che porterà Francesca, che di vini se ne intende.
Ci racconteremo cose con l’anima in mano, come accade di solito tra chi condivide una tavola piena di cibi e bontà e complicità e sguardi che confortano più delle parole.
Poi finiremo la cena con il dolce preparato da Piero.
Infine fumeremo qualche sigaretta perché d’estate c’è più gusto a fumare, all’aperto, come a mangiare, a parlare seguendo l’eco delle voci in un quartiere desolato di una città abbandonata, in una notte condita di stelle cadenti.
Serafino ci racconterà del suo ultimo viaggio ed Arianna del suo ennesimo licenziamento.
E si riderà, perché con loro si ride sempre, anche quando si è tristi.
Quando andranno via il mio cuore sarà più leggero.
D’estate la felicità è fatta di delizie dell’orto e deliziosi amici che ti comprendono senza mai giudicare, perché nell’esercizio del proprio vivere, conoscono bene l’ineluttabilità della vita.

Nicoletta Stecconi

Ispirazione

Ho bisogno di catturare quel filo, finché continua a sfuggirmi
le immagini svaniscono,le parole muoiono, le fantasie scolorano.
Devo acciuffare quel filo che si prende gioco di me,
si affaccia sovente dalle pagine dei libri,dagli istanti rubati,
dalla magia delle storie raccontate,dalle espressioni della gente comune,
che eppure lo sa come gira la vita.
 
Devo prendere quel filo e tenerlo stretto tra le dita,
attorcigliarlo intorno ai polsi, legarmi le caviglie,
passarmelo in bocca, sulla lingua, tra gli occhi,strofinarmelo nelle narici,
sensazione che continua a sfuggirmi, legarmi a quel modo che altrimenti mi fugge.
Poi trovare quel subbuglio interiore che porta a suonare i pensieri,
devo aggrapparmi a quel filo, annodarlo su in cima
e salire più in alto, fino a quando guardare in basso è come volare.
 
Chiudere gli occhi e riaprirli, appesa a quel filo sottile, mi volto,
ti scorgo, ti soffio intorno, ti lecco, ti lego a me, quel filo resiste,
finalmente l'ho agganciato con cura, avverto ora i miei pensieri.
 
Immagini, parole, il moto dell’universo, il rumore del silenzio, la quiete del caos,
sono davanti allo specchio e mi osservo nello squarcio dell’anima mia,
scorgo quello che i sensi non osano mostrare, ciò che non è bellezza ma autenticità.

Tiro il filo, ormai mi appartiene, mi lega, mi cura, sussurra poesie.
Spegnere i sensi e ascoltare con l’anima, ora lo sento che torna alla luce,
le parole si sciolgono, le idee fioriscono.
 
Ma il filo, traditore, approfitta della distrazione e mi lascia cadere,
lontana dalla cima, lontana dai sensi, lontana dallo scompiglio interiore,
lontana dalla mia stessa natura, ora guardare in basso è come morire.

Nicoletta Stecconi

Pensiero mio lontano

Il pensiero mio lontano da te
mi rende
fredda
indifferente
nervosa.

Tutto ciò che mi circonda lo sente
le pareti della mia casa sono sporche
la gente stizzita
il cielo si tinge di scuro
un vento potente spazza via gli sguardi gentili.

Il mio uomo mi abbraccia la notte
come fossi un peluche
e non come la sua bambola di carne preferita
io dormo, e non sogno.

Le parole fanno fatica ad uscire
non ho voglia di sorridere
la gente non mi guarda negli occhi
le mie pupille sono vuote
la bocca non ha respiro ma sete.

Il pensiero mio lontano da te
mi tiene distante da me stessa.

Nicoletta Stecconi